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Immagine: schizzo di Marco Cavallo, www.lescienze.it |
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Le molte vite di Madgalena Valdez, Joana Karda, Besa Edizioni, 2019
“Quando Joana Carda segnò il suolo col suo bastone d’olmo, tutti i
cani di Cerbère cominciarono a latrare, seminando panico e terrore tra gli
abitanti, visto che da tempi remoti si credeva che quando in quel luogo i
canidi, che erano sempre stati muti, avessero cominciato a latrare, tutto
l’universo sarebbe stato sul punto di estinguersi”.
È dal potente incipit di un’opera incredibile di Saramago che il
collettivo di autrici del romanzo Le molte vite di Magdalena Valdez prende il
nome, precisamente da uno dei personaggi che con un semplice gesto innocente
avvia un processo di separazione inarrestabile che sfugge a ogni logica e
rimedio. Dietro a Joana Karda (K per C) si celano quattro nomi (Claudia Mitri,
Vanessa Piccoli, Lolita Jaskin Timofeeva, Laila Wadia), un collettivo che Wu
Ming definisce sconfinato e “creolizzante” nella postilla al romanzo. Una
scrittura collettiva invisibile, che non si fa sentire e che esplode invece in
una narrativa coesa, semplice e diretta. Nomi e ancora nomi. Magdalena Valdez,
la protagonista dell’opera, dispiega la sua storia attraverso un viaggio lungo
trent’anni vestendo di volta in volta nomi diversi, diversi abiti sociali. È
Maggie, nell’India post coloniale degli anni settanta e ottanta; è Lenoçka (e
quindi Lena), nella Russia della transizione al nuovo stato post comunista; è
Maddalena (quindi Maddalè) nell’Italia degli anni novanta; e infine è Mad, a
Trieste, nell’epilogo della sua Storia. Ma forse di epilogo non si può parlare.
Joana Karda ci porta attraverso l’India post coloniale vista con gli
occhi di una bambina, poi ragazzina; la Russia degli anni immediatamente
precedenti il golpe del ’91, gli anni del definitivo disgregarsi della vecchia
Unione Sovietica, mentre diventa una donna; e poi in Italia, in piena
tangentopoli, dove Magdalena resta intrappolata negli schemi piccolo borghesi
di una famiglia come tante. Ancora spettri del passato, su una spiaggia romana,
ai bordi di una strada del centro, e ancora la violenza, “l’innocente sopruso”,
un fraintendimento? e tutto precipita di nuovo, perché niente è solido quando
si è reciso il legame primigenio. Quindi l’epilogo triestino, dove è
impossibile non pensare a Svevo, all’incurabilità di Zeno, alla sua malattia
che è malattia di ogni donna e ogni uomo moderno, tra il blu acceso
dell’esperienza basagliana, la speranza, e il desiderio di non essere soli, di
poter condividere l’esperienza propria con quella comune, universale.
È nella dicotomia tra la conquista personale, la crescita, e la necessità di sottostare a precisi dettami sociali (quali per esempio la maternità e il rispetto del ruolo imposto) che sta la debolezza, l’inadeguatezza di fondo. E quando tutto vacilla ci si sente stranieri, ovunque ci si trovi, da ovunque si arrivi, con chiunque si stia in quel preciso istante. Ecco allora concretizzarsi il quadro iniziale del romanzo che in un certo qual modo chiude la vicenda: la straniera. Una bambina coraggiosa, curiosa, intelligente; una ragazza timorosa, sensibile, cauta; una donna confusa, persa, diversa. Perché anche se tutto cambia, niente poi cambia davvero.
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